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Uganda: Museveni contro la criminalità dilagante, vuol riprendere le impiccagioni

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Africa ExPress
Kampala, 21 gennaio 2018

Il presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, sta pensando di rendere nuovamente effettiva la pena capitale nel Paese.

L’ultima esecuzione risale al 2005. Attualmente sono detenuti nel braccio della morte duecentosettantotto prigionieri, tra loro ventotto – secondo le autorità – meriterebbero di essere impiccati. Museveni ha precisato che solo la sua formazione cristiana lo ha spinto a non rendere esecutive queste condanne. E’ anche convinto però che la sua “clemenza”  ha permesso un aumento della criminalità.

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Questa settimana, durante la cerimonia di giuramento di novecento agenti penitenziari nella prigione di Lurizia a Kampala, il presidente ha fatto sapere che se l’ondata di criminalità dovesse continuare, avrebbe firmato il suo consenso per diverse impiccagioni. E rivolgendosi ai nuovi agenti ha precisato: “Evitate la promiscuità sessuale e l’alcool, perchè potrebbero costarvi la vita. Siate onesti e non corrotti, perché  potreste trovarvi in galera come prigionieri e non più come agenti di custodia.

Livingstone Ssewanyana, direttore esecutivo di Foundation for Human Rights Initiative in Uganda sostiene che la pena capitale non è certamente un mezzo per contrastare i crimini. Inoltre ci sarebbero molte falle nel sistema investigativo, la polizia del Paese non sarebbe in grado di svolgere indagini approfondite.

Yoweri Museveni, presidente dell'Uganda

Yoweri Museveni, presidente dell’Uganda

E’ un dato di fatto che da tempo gli omicidi sono aumentati. L’anno scorso sono state ammazzate anche venti donne in soli quattro mesi. Probabilmente le forze dell’ordine sono più occupate nel perseguire gli oppositori del presidente che indagare seriamente sui crimini e sui criminali.

Anche Amnesty International ha preso posizione contro le parole di Museveni: “Reintrodurre la pena di morte ora, vuol dire portare il Paese indietro di decenni”, ha fatto sapere Oluwatosin Popola, consulente per la pene di morte dell’Organizzazione. Il quale poi e ha aggiunto: “Il presidente dovrebbe trovare il modo di abolire definitivamente le esecuzioni capitali”.

Museveni, settantreenne, solo un mese fa, ha fatto cambiare la Costituzione che poneva il limite di età a settantacinque anni per il candidato alla presidenza e questa sua mossa non è certamente piaciuta a tutti https://www.africa-express.info/2017/12/22/uganda-musseveni-president-ever-grazie-ad-una-modifica-della-costituzione/

Molti Paesi africani, in particolare quelli della fascia subsahariana, hanno già abolito la pena capitale da tempo. Il Benin nel 2016, come pure la Guinea, dove può essere applicata solamente in casi eccezionali. Sempre nel 2016, il presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, ha commutato in ergastolo le sentenze di tutti i detenuti nel braccio della morte.

La Nigeria e il Botswana hanno applicato la pena capitale nel 2016, dopo una pausa di tre anni. I giudici nigeriani nello stesso anno hanno emesso ben cinquecentoventisette condanne a morte nello stesso anno.

Africa ExPress

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Allerta Organizzazione Mondiale della Sanità: rischio epidemia di meningite C in Africa

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Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
Firenze, 23 gennaio 2018

Occorrono almeno dieci milioni di dosi di vaccino contro il meningococco C per evitare una pericolosissima epidemia di meningite in Africa. L’allarme arriva dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che chiede ai donatori di impegnarsi a fermare la malattia prima che si trasmetta in modo incontrollato.

Vaccinazione contro la meningite C in Nigeria

Vaccinazione contro la meningite C in Nigeria

Il rischio è che vengano contagiati 26 Paesi dell’area sub-sahariana nella fascia della meningite africana che va dalla Mauritania all’Etiopia. Nel biennio 2018-2019 sono previsti tra i 28mila e i 72mila casi.

Secondo l’Oms si tratta di un ceppo della malattia che viene definito “iper-invasivo” e che in una popolazione con una bassissimo livello di immunità trova strada facile nella trasmissione che può arrivare a contagiare 34 milioni di persone.

“È necessaria un’azione urgente per prepararsi al peggio e minimizzare l’impatto potenzialmente devastante delle epidemie nella regione” si legge in una nota dell’Oms. In questo scenario le scorte di vaccini contro il meningococco C sono inadeguate e l’Agenzia Onu per la salute chiede ai partner tecnici e operativi, ai produttori di vaccini e ai donatori di agire subito per aumentare la disponibilità di vaccini.

OMS, dati delle 48 settimane del 2017

OMS, dati di 48 settimane del 2017

Il deposito di emergenza per il 2018 ha solo 2,5 milioni di dosi del vaccino C e per integrare le scorte attuali per il biennio 2018-2019 sono necessarie altri 10 milioni di dosi.

Tra gennaio e novembre del 2017, secondo dati divulgati dall’Oms, nella cintura sub-sahariana sono stati registrati quasi 30mila casi di meningite C con 1973 morti. I Paesi più colpiti sono stati Nigeria, Congo-K, Niger e Burkina Faso con circa 22mila casi. In Nigeria ci sono stati quasi 300 morti nei primi quattro mesi dell’anno, arrivando a oltre 600 decessi nei mesi successivi.

Neisseria meningitidis Scansione al microscopio elettronico (Courtesy www.bioquell.com)

Neisseria meningitidis, Scansione al microscopio elettronico (Courtesy www.bioquell.com)

I tassi di attacco della malattia nella fascia della meningite africana possono arrivare fino a 670 casi su 100 mila abitanti (estremamente alti). Il ceppo C è già in circolazione in Burkina Faso e Mali, paesi vicini alla cintura e ha mostrato un potenziale di diffusione anche in Liberia, Paese al di fuori della fascia della meningite africana.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com
Twitter: @sand_pin

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Non accennano a sparire i traffici di neonati tra Nigeria, Niger e Benin

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Cornelia I. Toelgyes Rov 100Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
29 gennaio 2018

Tempo fa un anziano diplomatico nigerino e due minori sono stati arrestati in Nigeria. Dopo essere stato accusato di traffico di minori, l’attempato signore ha ammesso che i piccoli in sua compagnia sono in realtà i figli di Hama Amado, allora presidente dell’Assemblea Nazionale del Niger. Ora la Nigeria chiede al Niger che venga effettuato il test del DNA.

Torna così alla ribalta lo scandalo di un losco traffico di neonati, che nel 2014 ha investito anche politici di spessore come appunto Hama Amadou –  e una delle sue mogli, Hadiza. (https://www.africa-express.info/2014/12/04/niger-lo-scandalo-del-traffico-dei-neonati-investe-la-politica/) – e Abdou Labo, allora ministro dell’Agricoltura, e consorte  (http://www.africa-express.info/2014/08/27/traffico-di-bambini-niger-carcere-anche-un-ministro-e-sua-moglie/).

Nigeria, fabbriche bambini

Nigeria, fabbriche bambini

Il traffico di neonati tra la Nigeria, Niger e Benin era stato smantellato nel giugno del 2014 (https://www.africa-express.info/2014/06/28/smantellato-traffico-di-neonati-tra-niger-nigeria-e-benin/), grazie alla collaborazione delle forze dell’ordine dei tre Stati. I neonati arrivavano in Niger dalla Nigeria, passando per il Benin ed erano destinati a coppie sterili, pronte a pagare migliaia di euro pur di avere un figlio. Le madri naturali generalmente erano giovani donne nigeriane, con gravidanze non desiderate, più raramente perché stuprate. Si facevano ricoverare in cliniche private in Nigeria, in cosiddette “fabbriche di bambini”. In cambio del loro figlio, ricevevano un compenso di centocinquanta euro. Nel miserabile commercio erano coinvolti anche impiegati e paramedici. (https://www.africa-express.info/2016/10/02/sempre-piu-diffuse-le-fabbriche-di-neonati-e-rapimenti-di-bambini-nigeria/).

Una volta scoperta l’origine dei neonati venduti, Niamey aveva rifiutato di occuparsi di queste creature, in quanto non cittadini nigerini. A quel punto Abuja aveva ripreso i bébé, affidandoli ad un orfanotrofio in Nigeria, eccezione fatta per i due gemelli della coppia Amadou, genitori che risultavano introvabili.

L’uomo arrestato in Nigeria stava cercando di procurare passaporti nigeriani ai due gemelli. In seguito alle sue ammissioni, il procuratore generale della ex colonia britannica ha chiesto formalmente alle autorità di Niamey di effettuare il test del DNA alla moglie di Amadou per poter definire la genitorialità. Quando gli inquirenti hanno bussato alla porta della signora Hadiza, questa risultava introvabile, sembra che si trovi all’estero. Inoltre, già qualche anno fa la coppia aveva rifiutato di sottomettersi a tale test perchè vietato dalla loro religione.

Intanto in Nigeria il traffico di minori non si ferma. Solo pochi giorni fa la polizia di Lagos ha fatto irruzione in un appartamento a Ejigbo  perché sospettato di essere un centro di transito per il traffico e la vendita di bambini. All’interno del monolocale sono stati trovati sei piccoli, dell’età dai tre ai dieci anni.

La polizia ha agito dietro denuncia dei vicini, che lamentavano la presenza dei bambini in un ambiente poco arieggiato, sotto custodia di una donna che non risulta essere la loro madre. Naturalmente “la custode” ha respinto tutte le accuse, affermando che si trattava di figli di parenti. Purtroppo nessuno dei bimbi sapeva quale fosse il proprio cognome. In attesa della fine delle indagini, i minori sono stati affidati ad un istituto.

Molte giovani donne nigeriane, spesso ragazze madri, vendono i loro figli per pochi soldi, e, come riferiscono, per problemi economici, altre, invece perché temono di affrontare la famiglia una volta rimaste incinte di un uomo sconosciuto o non accettato dai parenti. Queste donne vengono avvicinate e poi incoraggiate da trafficanti senza scrupoli.

Il commercio di neonati è diventato ormai un affare che frutta milioni e milioni di dollari, coinvolgendo spesso coppie sterili in tutto il mondo, desiderose di avere un figlio. Le cosiddette “fabbriche per bambini” fioriscono ovunque nel Paese.

La legge nigeriana vieta il traffico di esseri umani e la vendita di bambini. Esiste una speciale agenzia dello Stato per contrastare queste pratiche illegali e immorali, ma spesso la sua azione è senza successo. La National Agency for the Prohibition of Trafficking in Persons ha dovuto ammettere che è nell’impossibilità di seguire tutti casi e alcune agenzie internazionali hanno fatto sapere che il traffico di esseri umani risulta essere il terzo tra i maggiori crimini commessi nel Paese, secondo solo a quello delle frodi finanziarie e il narcotraffico.

Malgrado gli avvertimenti del Dipartimento di Stato americano che esorta e spiega di non adottare bambini in Nigeria, dal 1999 ad oggi sono stati dati in adozione ben milleseicento piccoli a cittadini statunitensi.

Abuja non ha sottoscritto la Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993 sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale, dunque senza uno statuto riconosciuto a livello internazionale, è pacifico che la corruzione, la peggiore piaga del Paese, abbracci anche quello che uno dei più generosi gesti d’amore, a discapito di piccole creature indifese. 

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes

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Nigeria: il presidente del Tribunale anti-corruzione, accusato di corruzione

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Loghino africa express 2Africa ExPress
Abuja, 3 febbraio 2018

Danladi Umar, il giudice supremo del Tribunale anti-corruzione della Nigeria, è stato formalmente accusato lui stesso di corruzione dalla “Commissione nigeriana per crimini economici e finanziari” (EFCC).

Secondo i documenti in possesso dell’EFCC, il giudice avrebbe chiesto la somma di ventiduemilatrecento euro ad un sospettato “per ulteriori servizi in relazione ad un dossier in sospeso”. Già nel 2012 Umar avrebbe ricevuto poco meno di cinquemila euro dallo stesso sospettato.

Corruzione

Corruzione

Il giudice in questione che presiede Code of Conduct tribunal, una Corte speciale incaricata di giudicare su false dichiarazioni patrimoniali e entrate, aveva assolto lo scorso anno Bukola Saraki, presidente del Senato della Nigeria, accusato di corruzione durante gli anni 2003-2011. In quel periodo il presidente del Senato era governatore del Kwara State.

I sospetti contro il presidente del tribunale speciale si sono intensificati dopo questa sentenza di assoluzione. Ora l’EFCC ha richiesto l’apertura di un nuovo processo contro Saraki.

Solo pochi giorni fa il neo presidente dell’Unione africana, Paul Kagame, aveva sottolineato l’importanza della lotta contro la corruzione in tutto il continente africano https://www.africa-express.info/2018/01/31/il-primo-impegno-di-kagame-eletto-presidente-dellunione-africana-lotta-alla-corruzione/.

Africa ExPress

 

 

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Alle Olimpiadi invernali in Corea del Sud tra entusiasmo e gioia debuttano i Paesi africani

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Costantino MuscauDal nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
Milano, 6 febbraio 2018

Anche le ventitreesime Olimpiadi bianche si tingono di ..nero (almeno un poco).

Si sa che la quantità di neve che cade in Africa non è tale da creare atleti in grado di eccellere in sport invernali quali sci di fondo, sci alpino, pattinaggio, slittino, skeleton, snowboard, …e via sci(vol)ando.

E’ vero che quest’anno, a gennaio, 30/40 centimetri di neve hanno ricoperto anche le dune sabbiose a ridosso della piccola località di Ain Sefra, in Algeria, conosciuta come la “Porta del Deserto”. E’ anche vero, però, che se andiamo più a sud, nell’Africa subsahariana, un evento simile non si è mai registrato. La media annuale delle candide precipitazioni è, infatti, di appena mezzo millimetro!

Eppure ciò non è bastato a dissuadere Paesi senza inverno come Senegal, Etiopia, Zimbabwe, Ghana, Sud Africa, Madagascar, Camerun ,Togo, Kenya, dal prendere parte, fin dal 1984, ai Giochi Olimpici invernali. Kenya, Togo, Sud Africa, Marocco, Ghana sono presenti anche quest’anno con 7 uomini delle nevi in tutto.

Olimpiadi invernali 2018

Olimpiadi invernali 2018

A essi ora si aggiungono i neofiti in assoluto Nigeria ed Eritrea, con 5 esponenti.

Un numero irrisorio all’interno dei 2925 atleti di 92 nazioni, dove gli Usa schierano un esercito, con 242 unità, seguiti da Canada e Norvegia con 226 e 211 (l’Italia ne allinea 122).  Una  presenza, quindi, quella africana, quasi esotica, o, meglio, di testimonianza della internazionalizzazione delle discipline invernali o alpine, sulle montagne della provincia di Gangwon, a meno di 100 chilometri da quel 38° parallelo che divide le due Coree (per una volta unite) e che tremare il mondo fa.

Non è un caso che nessuna  nazione africana abbia mai vinto una medaglia d’oro in queste attività agonistiche. E difficilmente anche in Corea del Sud vedremo brillare un oro nero.

Eppure i sogni possono diventare realtà,  esclama, su Instagram, Simidele Adeagbo – Fino al settembre 2017 non ero mai stata sul ghiaccio. Ora sarò la prima donna africana a competere in Corea nella specialità Skeleton.

Chiariamo per i 25 lettori non esperti in materia di ghiaccio e neve: in Corea del Sud – lo avrete capito – a PyeongChang, dal 9 al 25 febbraio, si celebrano i Giochi olimpici invernali, edizione numero 23.  

Skeleton è lo sport in cui ci si stende a pancia in giù su una slitta, testa in avanti e piedi sollevati, e si scende lungo una pista ghiacciata di 1200 metri a una velocità che può toccare i 130 km orari.

E Simidele Adeagbo, detta Simi, chi è?

Una bella e volitiva nigeriana di 36 anni, già atleta del salto triplo, di cui possiede il record dell’università del Kentucky. “Desideravo ardentemente andare a un’Olimpiade, ma a un tratto vidi le mie ambizioni svanire. Nel 2008 mi ritirai dall’attività agonistica non essendo riuscita a entrare, per un pelo, nel team olimpico. Nel 2016, però, lessi in un articolo che la Nigeria stava programmando di prendere parte ai Giochi coreani con il bob a 4 e di come le nigeriane avessero questa audace aspirazione di essere le prime africane a competere nel bob.  Mi offrii come quarto elemento, ma mi spiegarono che il bob a 4 è per gli uomini  e che per le donne c’è il bob a 2”. (In teoria l’atleta non sarebbe dovuta essere ignorante in materia in quanto nata a Toronto seppure da genitori dello stato Ekiti, nella Nigeria occidentale. Appena nata, però, rientrò in patria dove visse fino ai 6 anni).

Simi, comunque, non si perde d’animo. Nel 2017 torna alla carica quando vede su Instagram un invito a partecipare alle prime prove mai organizzate dalla Federazione nigeriana di skeleton e bob (altro celebre sport invernale da brivido,  per chi non lo sapesse) a Houston, in Texas. Simi  nell’agosto 2017 lascia la sua base di Johannesburg, in Sud Africa e va a Houston. “A essere sincera” – confessa ora – “di questa attività agonistica conoscevo ben poco. Sapevo però che la mia esperienza in atletica poteva essermi utile. Si trattava di correre al massimo per 30 metri e poi spiccare il volo. Qui la distanza è diversa, ma si tratta pur sempre di avere uno scatto iniziale e resistere per circa un minuto a rotta di collo”.

Simi supera le prove  in Texas e viene invitata in Canada, a Calgary, dove gareggia con successo in quattro eliminatorie. Idem in altre due a Park City, nello Utah. La sfida decisiva, però, risale all’11 gennaio scorso, a Lake Placid (New York),  dove stacca il pass per le Olimpiadi coreane completando brillantemente le 5 gare di qualificazione richieste.

E così può esultare sui social: “Hello PyongChang! Sto arrivando e non vedo l’ora di rappresentare il mio Paese. Ciò che mi sembrava impossibile, è stato un gioco da ragazzi. Voglio essere di esempio alle donne africane, voglio che sia smentito il luogo comune che le riguarda. E’ giunto il tempo di mostrare al mondo come le donne dell’Africa siano sveglie, energiche, coraggiose, belle, ambiziose e delle…apripista senza timori reverenziali nello sport”.

Un messaggio forte e chiaro, condiviso da altre tre stelle nigeriane che sperano di risplendere nel gelo siberiano che attanaglierà (stando alle previsioni) i giochi di PyeongChang.

Team delle ragazze nigeriane del Bob

Team delle ragazze nigeriane del Bob

E’ ora che scenda in pista, infatti, il trio femminile che si cimenterà per la prima volta nella specialità Bob. in rappresentanza non solo della Naija (come patriotticamente è chiamata la Nigeria) ma dell’intero continente. E’ composto da Seun Adigun,  31 anni, Ngozi Onwumere, 26, Akuoma Omeoga, 25. Tutte hanno avuto un percorso simile a quello di Simi: nate fuori patria, si sono cimentate in atletica e hanno deciso di competere sempre per la Nigeria. Seun , ad esempio, ha visto la luce il 3 gennaio 1987 a Chicago da genitori di Surulere, nella Stato del Lagos. Come riporta il sito Travelstart.com, si è dedicata a ogni sport dove ci fosse da ..menar le mani (pugilato escluso): dal football americano al tennis al basket. In realtà poi è divenuta una specialista dei 100 metri ostacoli tanto da prendere parte alle Olimpiadi di Londra nel 2012. Nel frattempo, però, si è anche laureata, in Scienze Motorie – con una borsa di studio – a Houston.

Ngozi Onwumere è nata e cresciuta a Mesquite, in Texas, da padre e madre si Umuchima, una cittadina di Imo, un altro dei 36 stati della Nigeria ( si trova a sud est della federazione). Prima di arrivare al Bob ha calcato le piste dell’atletica nei 100, 200, 400 e 4×100 metri, rappresentando la Nigeria a livello internazionale. Dopo la laurea nella città natale, si è trasferita a Houston grazie a una borsa di studio e li ha incontrato Seun, che aveva sviluppato la passione per il Bob. Dove, come? Nel garage di casa, dove si era costruita una slitta di legno perché – è il suo motto – “la paura è un’opportunità nuova per imparare”.

Ha contagiato la sua passione a Ngozi , che – ricorda oggi –”ignoravo l’esistenza della specialità. Per questo di fronte alla richiesta di Seun di unirmi al team, all’inizio nicchiai, Poi accettai la proposta: sentivo il bisogno di qualcosa di nuovo e di rischioso”.

Mancava  il terzo elemento (di scorta). E chi poteva essere se non Akuoma Omeoga? Una nigeriana di genitori di Umuahia (Abia, sud est della Nigeria) nata però a St. Paul del Minnesota, forse lo stato più freddo degli Usa? Pistard per 4 anni nell’università statale, dove  si è anche specializzata in educazione e nella cultura degli Igbo (uno dei maggiori gruppi entici africani), ha accolto senza esitazione la chiamata di Seun e Ngozi.

La notizia della loro discesa in pista – sottolinea il sito economico-finanziario Quartz.com – ha suscitato uno straordinario e sorprendente interesse da parte di alcuni brand mondiali che hanno scelto di sponsorizzare il trio. L’attenzione nei loro confronti è diventata quasi spasmodica dopo che le tre ragazze sono state ospiti di un popolare show televisivo americano. La loro apparizione è diventata virale su YouTube con oltre un milione e mezzo di visite e ha spinto la regina del tennis, Serena Williams, a twittare: “Il loro video mi fa letteralmente rabbrividire! Sono eccitatissima nel vedere che la Nigeria gareggerà per la prima volta in questa specialità”. E’ il caso di ricordare che suo padre , Richard Williams, è figlio di emigrati nigeriani.

Non è solo la Nigeria ad affacciarsi per la prima volta al balcone gelato di questo panorama olimpico. Ben cosciente della sua prima storica partecipazione come sciatore è, infatti, un giovanissimo studente di informatica, Shannon-Ogbani Abeda, 21 anni.

Nato e cresciuto in Alberta (Canada) da genitori eritrei (mamma Ariam e papà Walday), rifugiati politici dagli anni ’80, Abeda si sente orgoglioso della doppia nazionalità. “Sono cresciuto qui con tanti amici canadesi – ha confidato a Cbc.ca – “ma so bene anche chi sono dentro come eritreo. Il supporto fornitomi dalla comunità eritreo-canadese e dai messaggi giuntimi da tutto il mondo mi hanno commosso e motivato. Tanto più che un anno fa a causa di un infortunio a un ginocchio sono entrato in crisi e stavo per vedere questo sogno svanire”. Abeda non si illude di vincere la medaglia d’oro e neppure di salire sul podio, gli basterebbe andare avanti il più possibile nello slalom e nello slalom gigante. “Però – commenta suo padre Walday, ingegnere petrolifero ad Alberta – Shannon spingerà altri ragazzi di Paesi dove la neve non si è mai vista e li convincerà che anch’essi un giorno possono rappresentare la loro nazione o quella dei loro genitori. Nostro figlio sarà di stimolo agli immigrati di prima e seconda generazione a cimentarsi negli sport invernali”.

C’è, infine, chi porterà per la seconda volta la bandiera del suo Paese ai Giochi del grande freddo. E’ il ghanese Akwasi Frimpomg, 32 anni il prossimo 11 febbraio, che il 15 gennaio scorso su twitter ha esultato “E’ ufficiale. Sono orgoglioso di annunciare che rappresenterò il Ghana alle olimpiadi 2018. Abbiate il coraggio di sognare”. Akwasi, che si presenta come atleta, imprenditore e consulente motivatore, si è gettato nello skeleton appena 3 anni fa. Prima anche lui si dedicava all’atletica negli Usa e in Olanda, dove vive da quando aveva 11 anni. “Attraverso lo skeleton cerco di mostrare agli altri come si possa tentare qualcosa di diverso. Non possiamo essere tutti dei super campioni come Usain Bolt, ma tutti abbiamo del talento che possiamo usare”.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com

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Fake News e razzismo: nigeriani criminali? È come dire “giornalisti terroristi”

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andrea-spinelli-barrile82Speciale per Africa ExPress
Andrea Spinelli Barrile
Roma, 9 febbraio 2018

“Troppi criminali nigeriani. Non dovete più accoglierci” titolava a tre colonne il quotidiano Il Giornale giovedì 8 febbraio 2018, lanciando diversi servizi a firma di Paolo Bracalini, “Basta nigeriani in Europa” titolava la versione online di Libero Quotidiano. L’occasione era un’intervista al Presidente della Nigeria Muhammadu Buhari, che al quotidiano inglese The Telegraph aveva dichiarato che i nigeriani devono smetterla di chiedere asilo nel Regno Unito perché la loro reputazione da criminali rende impossibile che la richiesta venga accettata.

Rispondendo ad una domanda sulla legittimità delle domande dei richiedenti asilo nigeriani nel Regno Unito, che non vogliono tornare in Nigeria per via di Boko Haram, Buhari ha detto: “Alcuni nigeriani affermano che la vita è troppo difficile per tornare a casa ma altri hanno complicato l’essere accettati da europei ed americani a causa del fatto che un gran numero di nigeriani vive nelle prigioni di tutto il mondo, accusati di traffico di droga e tratta di esseri umani. Penso che i nigeriani non abbiano nulla da recriminare, possono restarsene a casa. Il loro operato è necessario per ricostruire il Paese, se i loro connazionali si sono comportati male la cosa migliore per loro è restarsene a casa e migliorare la credibilità della nazione”.

L’intervista sul Telegraph, citata sia nel pezzo pubblicato sul Giornale che in quello pubblicato su Libero, era firmata dal capo redattore esteri Colin Freeman. Peccato che, nonostante i due quotidiani italiani non lo abbiano nemmeno accennato, l’intervista è datata 5 febbraio 2016: è quindi vecchia di più di due anni. A quel tempo Buhari, chissà se il collega Bracalini lo sa, era nel Regno Unito – e ci rimase per mesi – per curarsi in una clinica privata londinese da un male che nessuno ha mai capito cosa fosse. Quello che è certo è che mentre Buhari rilasciava interviste al Telegraph, pensava alla sua ottuagenaria salute e trascorreva mesi fuori dal Paese, lasciato allo sbando, in Nigeria la crisi economica cominciava a mordere e la classe dirigente nigeriana, notoriamente la più corrotta d’Africa, cercava di barcamenarsi per salvare se stessa dal tracollo. La domanda che tutti i nigeriani si facevano all’epoca, non solo in terra africana ma anche nella diaspora nigeriana in Europa, era una soltanto: “Where is Buhari?” Queste cose, che si chiamano “contesto” e che sono piuttosto importanti nel giornalismo, sono state completamente dimenticate sia dal Giornale che da Libero.

Nigeriani in Italia

Nigeriani in Italia

In Italia i nigeriani detenuti sono circa 1.100 (dati DAP, Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, di dicembre 2017) su una popolazione carceraria complessiva di poco più di 57.600 persone. Non sono il gruppo non-italiano più rappresentativo né più violento ma, uscendo dal carcere, sono il gruppo non-italiano che ha presentato più istanze di asilo in Italia, circa 25.000 nel 2017. Forse è questo il dato che dà più fastidio, che legittima la falsa narrazione dell’”invasione di criminali” nigeriani in Italia e in Europa?

E, siccome a pensar male certe volte ci si azzecca, viene in mente che forse si sia tirata fuori dai cassetti quell’intervista al Presidente Buhari per portare acqua al mulino delle polemiche post-Macerata, visto che nei recenti fatti di sangue uno dei protagonisti è un cittadino nigeriano, Innocent Oseghale, 29 anni. Il Giornale, nel suo parziale racconto della realtà, cita una ricerca resa nota a ottobre 2017 dal quotidiano nigeriano Vanguard: sarebbero 170.000 i cittadini nigeriani incarcerati nelle prigioni sparse per il mondo. Una cifra che sul Giornale sembra collegata alle parole di Buhari, pronunciate invece due anni prima e quindi totalmente fuori contesto.

Entrando nel dettaglio di questo numero scopriamo cose piuttosto interessanti, che Il Giornale ha omesso: secondo il Patriotic Citizens Initiative nigeriano (PCI), il gruppo della società civile che per primo ha redatto tale ricerca, circa 8.000 nigeriani si trovano in carcere in Cina per reati connessi all’immigrazione, al traffico di droga e al contrabbando e nel 2016 molti di loro sono morti in circostanze misteriose, tanto misteriose che il PCI ha chiesto al governo federale di Abuja di indagare sugli espianti di organi di questi detenuti nigeriani in terra cinese, che sarebbero stati usati come carne da macello per il traffico di organi in Asia. La maggior parte, ha accusato PCI, erano vittime di indagini scadenti e processi sommari: solo in Asia 40 cittadini nigeriani sono stati condannati a morte nel 2016 ma molti altri sarebbero scomparsi nel nulla dopo l’arresto: “Il governo federale non dovrebbe essere insensibile alla difficile situazione dei suoi concittadini imprigionati in paesi stranieri, la Presidenza dovrebbe istituire una delegazione per visitare questi paesi e indagare accuratamente su accuse gravi, garantendo che i nigeriani ricevano giustizia. […] È umiliante abbandonare i nostri cittadini nelle carceri straniere, dobbiamo creare opportunità per i giovani nigeriani e far realizzare i loro sogni qui, nel Paese: la Nigeria ha tutto ciò che serve per rendere la gente felice” scrive il Patriotic Citizens Initiative nel suo appello alla Presidenza, al governo ed al Parlamento nigeriano. Di questi 170.000 detenuti nigeriani in tutto il mondo 6.000 sono nel braccio della morte per reati di droga e 5.145 sono donne vittime della tratta arrestate per reati di prostituzione. L’Europa è il continente con meno problemi legato a reati, veri o presunti, commessi da nigeriani.

Notoriamente inoltre le autorità nigeriane non vedono di buon occhio i cittadini che si macchiano, o che vengono semplicemente accusati, di reati di varia natura. Le carceri nigeriane sono considerate tra le peggiori d’Africa e sono letteralmente luoghi infernali in cui gli esseri umani, una volta entrate, vengono dimenticate. Ragion per cui pensare di estradare un nigeriano dall’Italia è una chiara violazione dei diritti umani di questa persona. Inoltre, citando le stesse fonti utilizzate dal collega del Giornale, Vanguard scrive che in Nigeria c’è un “esercito di disoccupati in crescita, circa 40 milioni di giovani in cerca di lavoro” e “una crisi economica fortissima” che spinge questa massa di giovani nigeriani verso i soldi facili del traffico di droga e di esseri umani: “Nonostante i ripetuti avvertimenti” che in Nigeria si traducono in campagne governative nelle scuole e nelle università, pubblicità su radio e tv, cartelloni giganteschi nelle città del Paese e nelle zone rurali “la maggioranza continua ad intraprendere viaggi pericolosi” verso l’Europa.

Tutte cose che i due quotidiani italiani si sono dimenticati di scrivere.

Andrea Spinelli Barrile
aspinellibarrile@gmail.com
@spinellibarrile

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I bambini soldato protagonisti delle guerre in Africa: una giornata per ricordarli

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Cornelia I. Toelgyes Rov 100Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 12 febbraio 2018

Alcuni giorni fa sono stati liberati poco più di trecento bambini soldato nel Sud Sudan. Molti altri sono ancora al servizio dei signori della guerra, quasi ovunque nel mondo dove ci sono conflitti in corso; giovanissimi che vengono derubati della loro infanzia, della loro spensieratezza, del diritto allo studio.

Nel suo rapporto del 2017 sulla situazione dei minori, il Segretario generale dell’ONU, Antonio Guteress ha sottolineato che in quattordici Stati nel mondo sono ben cinquantasei i gruppi armati e, purtroppo anche sette eserciti regolari, che reclutano bambini soldato. Atrocità inconcepibili nel ventunesimo secolo.

Bambini soldato liberati in Sud Sudan

Bambini soldato liberati in Sud Sudan

Nei conflitti i minori vengono utilizzati come scudi umani, ammazzati, mutilati, reclutati e addestrati al combattimento. Per non parlare delle ragazze e bambine: dopo essere state rapite, vengono messe in uno stato di totale subordinazione e schiavitù, violentate, sottoposte a matrimoni forzati con i loro aguzzini.

Durante lo scorso anno solo nella Repubblica democratica del Congo tremila giovanissimi e adolescenti al di sotto dei diciotto anni sono stati arruolati come bambini soldato e nel Medio Oriente il numero è ancora più elevato.

Ricordiamo qui anche le ragazze di Chibok, rapite in massa nell’aprile del 2014 dai sanguinari Boko Haram. Non tutte sono state liberate, molte di loro sono ancora in mano ai terroristi e coloro che sono riuscite a scappare o strappate dalla schiavitù hanno raccontato le atrocità subite: violenze di tutti i generi, dagli abusi sessuali e lavaggi del cervello, all’obbligo di mettersi a disposizione come kamikaze. (https://www.africa-express.info/2017/05/07/nigeria-libere-ottanta-ragazze-rapite-dai-boko-haram-chibok-nel-2014/)

Secondo le stime dell’ONU, il 40 per cento dei bambini soldato sono ragazzine e sono proprio loro che riscontrano maggiori problemi dei maschi quando tornano a casa. Nessuno, né maschi, tanto meno le femminucce, vengono accolti a braccia aperte dal villaggio d’origine, dai familiari, una volta liberati. Il loro inserimento nella comunità è tutt’altro che facile; molto spesso vengono respinti o discriminati, la maggior parte delle ragazze viene addirittura ripudiata dalla loro stessa famiglia. Giovanissime vite, vittime due volte e sole al mondo per essere state costrette a servire un padrone che le ha rese schiave.

Tutti questi giovanissimi hanno bisogno di supporto per poter far nuovamente parte della società ed è estremamente importante che la comunità internazionale riconosca la necessità della reintegrazione e dei costi che essa comporta.

Studentesse di Chibok poco dopo il loro rapimento

Studentesse di Chibok poco dopo il loro rapimento

Anche i relativi governi dovrebbero dedicare maggiore attenzione agli ex-bambini soldato, invece molti di loro, appena liberati, vengono sbattuti in galera, senza sapere di cosa sono incriminati. Difficilmente viene loro concesso di contattare un legale o i familiari. Sono vittime, non criminali.

Negli ultimi anni sono stati fatti grandi progressi. Anche grazie all’intervento dell’ONU, dal 2000 ad oggi sono stati liberati quasi centoquindicimila bambini soldato da gruppi armati e/o eserciti regolari.

Oggi si celebra la giornata internazionale contro l’uso dei bambini soldato, che coincide con il sedicesimo anno dall’entrata in vigore del protocollo internazionale, sottoscritto per evitare il coinvolgimento di minori nei conflitti armati.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes

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Nigeria, attentati continui di Boko Haram mentre pastori e contadini si combattono

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Cornelia I. Toelgyes Rov 100Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 5 marzo 2018

Le Nazioni Unite hanno sospeso momentaneamente ogni attività di cooperazione nel nord-est della Nigeria dopo l’uccisione di tre operatori umanitari da parte del gruppo terrorista Boko Haram. Altri tre risultano tutt’ora dispersi, forse sono stati sequestrati dai jihadisti.

La città di Rann, nel Borno State, dove è avvenuto l’assalto, ospita un campo per oltre 50 mila sfollati, scappati dalle loro case per i continui attacchi dei miliziani nigeriani. Gente ormai sola, senza supporto alcuno.  Giovedì scorso durante l’attacco ad una baracca militare hanno perso la vita undici persone, tra loro tre operatori umanitari, una ventina i feriti. Quella sera nel campo erano presenti una quarantina di operatori umanitari. Anche lo staff dell’Organizzazione Medici Senza Frontiere è stato evacuato dopo la strage.

Muhammadu Buhari, presidente della Nigeria

Muhammadu Buhari, presidente della Nigeria

Nel frattempo il governo nigeriano ha esteso nel vicino Ciad e nel Camerun, Paesi dove i Boko Haram sono ugualmente molto attivi, le ricerche delle ragazzine rapite lo scorso febbraio da una scuola a Dapchi, Yobe State, nel nord-est della Nigeria.

Muhammadu Buhari, il presidente della ex colonia britannica, eletto nel 2015, ma ex golpista del 1983, aveva promesso durante la sua campagna elettorale che avrebbe sconfitto i terroristi locali, aveva persino fissato come data ultima il 31 dicembre 2015, ma come vediamo dalle cronache quasi giornaliere, i militanti sono tutt’ora molto attivi (https://www.africa-express.info/2015/12/31/nigeria-entro-il-31-dicembre-sconfiggero-i-boko-haram-aveva-promesso-buhari-non-ce-riuscito/).

Per portare conforto alle popolazioni, in questi giorni il presidente visiterà le zone maggiormente colpite dal’insurrezione e si recherà anche a Dapchi, teatro dell’ultimo maxi-sequestro. Difficile però  consolare una madre alla quale è stata rapita la figlioletta – alcune delle studentesse avevano solo undici anni – anche se un avvocato nigeriano, Aisha Wakil, conosciuta anche come “Mama Boko Haram” perché mediatrice tra il gruppo e il governo, ha sostenuto venerdì scorso che le ragazzine stanno bene. La donna sarebbe stata contattata da Abu Musab al-Barnawi, noto anche con il nome di Habib Yousuf, capo di una nuova fazione dei jihadisti nigeriani. Si tratta del secondogenito di Mohammed Yusuf, che aveva fondato il gruppo nel 2002. Al-Barnawi si è staccato dal nucleo storico guidato dal 2009 da Abubakar Shekau.

Mohammed Yusuf, fondatore della setta che alle origini era un movimento molto meno violento di quello attuale, nonostante fosse contrario ai modelli di vita dell’Occidente, sostenesse che a Terra non è sferica ma piatta e che la pioggia fosse un dono e creazione di Allah e non il risultato della condensazione dell’acqua, cose per altro sostenute dal Corano. Mohammed Yusuf aveva anche mezzi militari limitati; infatti solo dopo la sua morte, nel 2009, i Boko Haram si sono trasformati in una vera e propria macchina da guerra.

Abou al Masab al Barnawi, un leader dei Boko Haram

Abou al Masab al Barnawi, un leader dei Boko Haram

Insomma al-Barnawi avrebbe garantito alla mediatrice che le ragazzine vengono trattate con il massimo rispetto. Peccato che il jihadista abbia ignorato la richiesta dell’avvocatessa di poter visitare e vedere le studentesse.

Buhari ha diversi grattacapi da risolvere, non ultimo quello dei continui scontri tra gli agricoltori e i pastori semi-nomadi. Negli ultimi giorni hanno perso la vita una decina di persone nell’est del più popoloso Stato africano durante svariati conflitti tra le due fazioni.

Secondo, Mohammed Keruwa, capo dell’Unione dei pastori nigeriani MACBAN, diciannove persone sarebbero stati ammazzati e altre 23 ferite in diversi villaggi del distretto di Mambilla, nel Taraba State. Keruwa ha sottolineato che alcuni miliziani della regione sarebbero arrivati all’improvviso, armai di machete e bastoni, aggredendo i pastori senza alcuna ragione. Durante la loro incursione avrebbero ucciso e rubato molti capi di bestiame.

I pastori semi-nomadi sono in maggioranza musulmani, mentre gli agricoltori sono prevalentemente cristiani, dunque si tratta non solo di una rivalità tra pastori e contadini, ma di un vero e proprio conflitto etnico-religioso che il governo centrale non riesce a risolvere, generalmente si limita a richiamare all’ordine le due fazioni rivali.

Molti analisti e numerose organizzazioni umanitarie sono convinti che il conflitto tra pastori nomadi e contadini sia sempre stato sempre sottovalutato in questi anni dal governo centrale, eppure, come si evince da un rapporto di SB Morgan Intelligence consulting, negli ultimi vent’anni sono morte tra cinque a diecimila persone durante gli scontri tra agricoltori residenti e i pastori semi-nomadi. Nella pubblicazione le milizie dei fulani sono da ritenersi più pericolose dei terroristi Boko Haram. E anche secondo il database di Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED) l’undici percento delle morti di civili in Africa sono causati da conflitti con pastori.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes

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Libertà di stampa: Corte di giustizia africana condanna il Gambia a risarcire i giornalisti

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sandro_pintus_francobolloSpeciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
Firenze, 15 marzo 2018

La legge del Gambia sulla diffamazione, sedizione e diffusione di fake news viola il diritto di libera espressione. È la sentenza del 14 febbraio scorso della Corte di giustizia africana della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas). La Corte, presieduta dal giudice Chijioke Nwoke, ha anche ordinato al governo della Gambia “di modificare o abrogare le leggi odiose con le quali sono stati incarcerati i querelanti”.

Ecowas Court

Ecowas Court

Il governo di Banjul è stato condannato a pagare a quattro giornalisti la somma di sei milioni di dalasi, valuta gambiana, (€ 102.000) “per violazione dei loro diritti umani e sottoponendoli a trattamenti degradanti”. Una sentenza storica secondo Amnesty International. Decisione che mette un punto fermo sulla situazione dei diritti umani e sul diritto alla libertà di espressione nel piccolo Paese africano, enclave anglofona del Senegal.

Il caso nasce nel 2015 quando il Gambia era ancora sotto la presidenza del dittatore Yanya Jammeh, tristemente famoso per aver minacciato di tagliare la testa dei gay che vivono nel paese e per gli arresti arbitrari e le torture agli oppositori e ai giornalisti.

Tre dei quattro reporter dell’ex colonia britannica erano stati costretti ad andare in esilio perché temevano la persecuzione e per paura di danni fisici e mentali, come conseguenza del loro lavoro di giornalisti.

Il danni fatti dal predecessore Jammeh dovrà risolverli Adama Barrow, riuscito ad insediarsi faticosamente alla presidenza nel gennaio 2017 dopo aver vinto le elezioni del 2016. Il dittatore, al potere dal 1994 con un colpo di Stato, si è dimesso solo dopo la minaccia di un intervento militare dell’ Ecowas ma è scappato con la cassa: 12 milioni di euro, l’1 per cento del PIL. Si è rifugiato in Guinea Equatoriale appoggiato dal dittatore Teodoro Obiang Nguema Mbasogo.

L'area dei Paesi menbri Ecowas

L’area dei Paesi membri Ecowas

L’Ecowas è una Organizzazione internazionale nata nel 1975 e composta da 15 Paesi (Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo). Dal 2 dicembre 2004 ha lo status di osservatore dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

I Paesi dell’Ecowas hanno firmato due protocolli di non aggressione (1978 e 1990) e un protocollo di assistenza difensiva reciproca (1981) per la costituzione delle forze armate alleate della Comunità (Ecomog). L’Ecomog è intervenuta in operazioni di peacekeeping in Sierra Leone, Guinea Bissau, Liberia e Mali.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com
Twitter: @sand_pin

Crediti immagini:

– Mappa Ecowas
Di CarportFile:BlankMap-Africa2.svg, Pubblico dominio, Collegamento

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Amnesty accusa militari e governo nigeriano: ignorati avvisi sul rapimento delle ragazze

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Cornelia I. Toelgyes Rov 100Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 20 marzo 2018

Amnesty International accusa nuovamente l’esercito e il governo nigeriano: i militari avrebbero ignorato l’avviso – lanciato più volte poche ore prima del rapimento delle alunne della scuola di Dapchi – che lo Yobo State si era riempito di terroristi pronti a effettuare qualche azione. (https://www.africa-express.info/2018/03/06/nigeria-attentati-continui-di-boko-haram-mentre-pastori-e-contadini-continuano-combattono/). Un atteggiamento del genere e cioè la sottovalutazione di un pericolo imminente si era già manifestato nel 2014 per il sequestro delle studentesse di Chibok #BringBackOurGirls. (http://www.africa-express.info/2014/05/10/amnesty-quattro-ore-prima-avevamo-avvisato-militari-che-avrebbero-tentato-di-rapire-le-300-ragazze/).

Ragazzine sequestrate nello Yobe State

Ragazzine sequestrate nello Yobe State

In entrambi i casi le autorità nigeriane hanno riconosciuto il rapimento solo qualche giorno dopo. Nel primo caso il presidente in carica era Goodluck Jonathan, mentre ora il capo di Stato è Muhammadu Buhari, ma come si può vedere chiaramente, nulla è cambiato. Eppure Buhari, golpista del 1983, aveva fatto della lotta contro i jihadisti il suo cavallo di battaglia durante la sua campagna elettorale e, appena nominato sommo leader del suo Paese aveva promesso che entro il 31 dicembre 2015 i terroristi sarebbero stati annientati completamente.

Amnesty dalla sua sede centrale di Londra ha chiesto al governo di Abuja di aprire immediatamente un’inchiesta per determinare gli errori nella gestione della crisi e Osai Ojigho, direttrice di Amnesty International Nigeria, ha precisato: “Le autorità paiono non aver appreso affatto la lezione del rapimento delle 276 studentesse di Chibok e non hanno fatto niente per garantire protezione alla popolazione civile del nordest della Nigeria, soprattutto alle studentesse”.

Scuola di Dapchi, Nigeria

Scuola di Dapchi, Nigeria

Nel suo rapporto di oggi Amnesty chiede al governo nigeriano perché non ci fossero truppe sufficienti sul posto al momento del rapimento delle ragazzine di Dapchi. Quali misure sono state prese per proteggere le scuole nel nord-est del Paese dopo i fatti di Chibok?

La ONG ha precisato che i servizi di sicurezza avrebbero ricevuto almeno cinque avvisi nel pomeriggio, poche ore prima dell’attacco. E’ stata ignorata la segnalazione che miliziani Boko Haram si stavano dirigendo verso Dapchi nello Yobe State. Alcuni residenti confermano di aver visto ben nove autovetture con a bordo una cinquantina di terroristi quando distavano ancora una trentina di chilometri dalla cittadina, dove sono giunti alle 18.30. I jihadisti si sono diretti subito verso il pensionato della scuola. Alle 21.00 sono stati avvistati con le ragazze rapite e anche qui i residenti hanno immediatamente allertato le forze di sicurezza.

La denuncia di Amnesty si basa sulla testimonianza di ben ventitré persone e di tre responsabili della sicurezza – che si sono avvalsi della facoltà dell’anonimato – di Geidam, poco distante dalla frontiera con il Niger. Secondo le informazioni raccolte, nel fascicolo viene evidenziato che i comandanti militari di Geidam e Damaturu sono stati allertati proprio al momento dell’attacco. I residenti di Dapchi e Geidam hanno raccontato di aver sentito il rombo di un aereo militare mentre sorvolava i cieli della zona. solamente un’ora dopo la partenza dei terroristi.

boko-haram

Per le studentesse rapite a Chibok nel 2014 il mondo intero aveva preso posizione. L’hashtag #BringBackOurGirls era presente ovunque in rete e anche l’allora first lady americana Michelle Obama, come molte altre personalità della politica e dello spettacolo, si erano strette attorno a Chibok e i suoi abitanti, alle madri delle ragazze sequestrate. Questo rapimento di massa, invece, si sta consumando nel totale silenzio e nell’indifferenza del mondo.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
#BringBackOurGirls

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Nigeria, i dati Amnesty contro Eni e Shell su inquinamento del Delta del Niger

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Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
Firenze, 21 marzo 2018

Grazie alla tecnologia Amnesty International smentisce i dati diffusi per anni da Eni e Shell sull’inquinamento da petrolio nel Delta del Niger. Le prove di gravissime negligenze delle due multinazionali sono state scoperte grazie al progetto “Decode Oil Spills”, piattaforma sviluppata dall’ong per condividere la ricerca sui diritti umani.

ENI e SHELL

ENI e SHELL

Coinvolti oltre tremilacinquecento decoders di 142 Paesi

Nel progetto sono stati coinvolti attivisti e volontari: 3.545 ricercatori specializzati – chiamati “decoders” (decodificatori) – di 142 Paesi, soprattutto Francia, Olanda, Nigeria, Regno Unito e Svezia che hanno portato avanti un’investigazione innovativa sulle fuoriuscite di petrolio nell’ex colonia britannica. Le indagini mettono le compagnie petrolifere di fronte alle loro gravi responsabilità sul devastante inquinamento causato dalle “disattenzioni” e il deturpamento di un territorio immenso con incalcolabili danni alle popolazioni.

I decodificatori di dati hanno analizzato quasi 3 mila documenti e fotografie che riguardano le fuoriuscite di greggio nel periodo che va dal 2011 al 2017. I risultato dell’indagine sono quindi stati verificati da Accufacts, organismo indipendente di esperti petroliferi.

Le accuse a Shell ed Eni

Amnesty accusa Shell ed Eni di dare informazioni fuorvianti riguardo al pesantissimo inquinamento causato. Per esempio Shell, dai suoi pozzi e oleodotti, nel 2011 ha segnalato 1.010 con fuoriuscite per oltre 110 mila barili che corrispondono a circa 17,5 milioni di litri. Eni invece ha dichiarato 820 fuoriuscite di petrolio con oltre 26 mila barili equivalenti a oltre 4 milioni di litri di greggio.

Secondo i due giganti dell’industria petrolifera la maggior parte delle perdite dalle pipeline sono causate da furti della popolazione. Le analisi dei dati dei decoder smentiscono e le fotografie mostrano fuoriuscite dovute alla corrosione degli impianti.

Inquinamento da petrolio nel Delta del Niger (Courtesy Amnesty International)

Inquinamento da petrolio nel Delta del Niger (Courtesy Amnesty International)

La maggioranza dei ricercatori ha identificato 89 fuoriuscite di greggio (46 di Shell e 43 di Eni) che dipendevano da problemi tecnici al gasdotto più che da ruberie della popolazione. Inoltre, attribuire le perdita di petrolio a un furto evitava alle compagnie di pagare i risargimenti alle decine di comunità colpite dal disastro ambientale.

“A peggiorare le cose è il fatto che Shell ed Eni paiono pubblicare informazioni non credibili sulle cause e le dimensioni delle fuoriuscite – ha dichiarato Mark Dummett, ricercatore su imprese e diritti umani di Amnesty International – La popolazione del Delta del Niger paga da troppo tempo il prezzo della sconsideratezza di Shell ed Eni. Grazie ai Decoders, siamo un passo più vicini all’obiettivo di chiamare le due aziende a rispondere del loro operato”.

I ritardi nell’intervento aumentano l’inquinamento

Amnesty denuncia anche i ritardi nell’intervento in caso di perdita di greggio. Secondo i regolamenti vigenti in Nigeria le aziende devono recarsi sul sito dove è avvenuta la fuoriuscita entro 24 ore dalla segnalazione per un sopralluogo e quindi ripulire l’area prima che il petrolio contamini terra e falde acquifere. Secondo i documenti analizzati, se Eni ha rispettato quel termine temporale nel 76 per cento dei casi, Shell lo ha fatto solo nel 26 per cento. Non solo, la compagnia petrolifera anglo-olandese – con la riduzione delle fuoriuscite riportate – ha reagito più lentamente. È stato segnalato anche un incredibile ritardo: prima di visitare uno dei siti contaminati sono passati 252 giorni.

Mappa delle fuoriuscite di petrolio dal 2011 (fonte https://oilspillmonitor.ng)

Mappa delle fuoriuscite di petrolio dal 2011 (fonte https://oilspillmonitor.ng)

Poca cosa rispetto ad Eni che invece, prima di reagire, ha fatto registrare la reazione più lenta mai documentata: 430 giorni per una perdita nella provincia di Bayelsa, 700 km a sud della capitale Abuja. “C’è un motivo per cui ci sono quei regolamenti: più le aziende ci mettono a reagire alle fuoriuscite, più aumenta il rischio che il petrolio finisca per inquinare le fonti alimentari e idriche – ha commentato Dummett – Shell lo sa bene. Di sicuro, se il loro petrolio inquinasse terreni in Europa, non si comporterebbero in un modo così irresponsabile”.

Le compagnie petrolifere non accettano le accuse

Eni e Shell, come prevedibile, hanno rispedito le accuse al mittente. Secondo Shell le informazioni pubblicate da Amnesty sono false e non tengono conto della complessità del territorio e del contesto in cui l’azienda opera. Invece Eni ha respinto l’accusa di non prendere misure immediate per prevenire l’inquinamento.

Mappa delle fuoriuscite di petrolio da gennaio a marzo 2018 (fonte https://oilspillmonitor.ng)

Mappa delle fuoriuscite di petrolio da gennaio a marzo 2018 (fonte https://oilspillmonitor.ng)

In una lettera di risposta, l’azienda italiana afferma che il 13 per cento delle perdite di greggio degli anni recenti sono da attribuire a ragioni operative. Spiega che utilizza tecnologie innovative per il monitoraggio dell’integrità dell’oleodotto compresa l’osservazione aerea del territorio con i droni. I dati del 2017 rispetto al 2014 sulle fuoriuscite di petrolio registrano -74 per cento e un abbattimento del volume (-51 per cento).

Amnesty ha deciso di presentare i risultati dello studio al governo nigeriano e di chiedergli di rafforzare la normativa sull’operato delle aziende petrolifere. Suggerisce anche di fornire maggiori strumenti al Nosdra, l’agenzia governativa che si occupa delle fuoriuscite di petrolio, per fare in modo che le multinazionali petrolifere prendano tutte le possibili misure per prevenire o bonificare i danni causati.

Sandro Pintus
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Ha rubato 7 bottiglie di birra e un pacchetto di sigarette: condannato a morte in Nigeria

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Cornelia I. Toelgyes Rov 100Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 6 aprile 2018

Raji Babatunde è stato condannato a morte per aver rubato sette bottiglie di birra e un pacchetto di sigarette. Cornelius Akintayo, giudice della Corte suprema di Ado-Ekiti, capoluogo dell’Ekiti State nell’ovest del Paese, ha ritenuto l’accusato colpevole di rapina a mano armata e gli ha inflitto la pena capitale da eseguirsi tramite impiccagione.

L’accusato, al momento del furto, era in possesso di un’ascia e di un coltello e, secondo il giudice, la pubblica accusa avrebbe dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio la colpevolezza di Babatunde.

Death-sentence

Secondo i capi d’accusa, Babatunde faceva parte di una banda composta da quattro balordi, che il 30 giugno 2014 hanno rubato in casa di un notabile del luogo tre cellulari e in casa di un’altra persona una bottiglia di birra Star lager, altre sei bottiglie di birra Trophy lager e un pacchetto di sigarette Rothmans. Mentre era in corso la seconda rapina, è sopraggiunta una pattuglia di agenti di polizia. Tre componenti della gang sono riusciti a dileguarsi, mentre Babatunde, con in mano birre e sigarette è stato arrestato.

Durante l’interrogatorio, l’accusato ha fatto il nome di un altro componente della banda, Adegboye Sunday, che è stato rintracciato e arrestato, ma durante l’udienza è stato prosciolto dal giudice per insufficienza di prove.

Purtroppo l’unica persona chiamata a testimoniare in favore del povero disgraziato è stata la madre, che ha giurato di essere stata in Chiesa con il figlio durante l’ora della rapina.

La Nigeria, il gigante dell’Africa, è piena di contrasti e la corruzione è endemica a tutti livelli. Questo giovane, per essere trovato in possesso di sette bottiglie di birra e un pacchetto di sigarette è stato condannato a morte, mentre altri, che indebitamente si sono appropriato di miliardi di dollari, o sono tranquillamente all’estero in un posto al sole, o se giudicati da un tribunale, saranno liberi dopo qualche anno di prigione. Questo è il Paese dove persino il giudice del Tribunale anti-corruzione è stato accusato di corruzione https://www.africa-express.info/2018/02/03/nigeria-il-presidente-del-tribunale-anti-corruzione-accusato-di-corruzione/, ma difficilmente per lui o altri illustri indagati, come Sambo Dasuki, ex consigliere speciale per la sicurezza nazionale (https://www.africa-express.info/2016/01/06/nigeria-spariti-due-miliardi-di-dollari-dovevano-servire-per-combattere-i-boko-haram/) saranno pronunciate pene terribili come quelle destinate ad un ladro di birre e sigarette.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes

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“Le amazzoni di Dahomey” serial TV di Nollywood che sbarca a Hollywood

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Cornelia I. Toelgyes Rov 100Speciale per AfricaExPress
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 9 aprile 2018

Nollywood (la versione nigeriana di Hollywood) inizierà presto una collaborazione con uno studio televisivo americano. La Sony Pictures Television e il network nigeriano EbonyLife, una delle maggiori reti televisive del continente africano, stanno progettando una coproduzione di tre serie TV. Una in particolare desta particolare interesse: Le amazzoni del Dahomey, un serial per la televisione, ambientato nel diciannovesimo secolo.

L'immagine usata per lanciare il serial televisivo "Le amazzoni di Dahomey"

L’immagine usata per lanciare il serial televisivo “Le amazzoni di Dahomey”

Le amazzoni di Dahomey erano un gruppo militare dell’Africa occidentale e gli sceneggiati racconteranno la storia di queste valorose donne, come hanno saputo proteggere il loro Paese.

Il Regno di Dahomey – l’attuale Benin –  durò dal 1600 al 1900. Il Regno ero conosciuto come il Paese più ricco e potente dell’Africa occidentale, perché i suoi soldati erano considerati invincibili.

Mosunmola Abudu, più conosciuta come Mo Abudu, è un'importante personalità del mondo dei media oltre che filantropa. Forbes l'ha descritta come "Africa's Most Successful Woman".

Mosunmola Abudu, più conosciuta come Mo Abudu, è un’importante personalità del mondo dei media oltre che filantropa. Forbes l’ha descritta come “Africa’s Most Successful Woman”.

Dahomey Gbêhanzin, incoronato nel 1880, anno che coincide con l’espansione coloniale francese nel Dahomey, forma un esercito di venticinquemila uomini e truppe speciali, composte da cinquemila donne, le Amazzoni. Erano intoccabili e vergini giurate. Si identificavano con il nome di “N’Nonmiton”, tradotto in italiano “nostre madri”. Erano armate di moschetto olandese e di machete e decapitavano velocemente le loro vittime. Venivano reclutate ancora bambine, tra gli otto-nove anni. Se un francese tentava di avvicinare una delle amazzoni, il giorno dopo lo si trovava morto nel suo letto.

Alcune delle attrici di EbonyLife

Alcune delle attrici di EbonyLife

Nel 2015 l’artista di strada francese XY Yseult, residente in Senegal, ha reso omaggio a queste donne con una serie di murales, intitolata: “Progetto amazzoni”.

“Vogliamo raccontare la storia dell’Africa dalla nostra prospettiva”, ha sottolineato in un comunicato Mo Abudu, amministratore delegato della EbonyLife, annunciano l’accordo con la Sony raggiunto sull’onda del crescente interesse di serie TV e film che raccontano storie dell’Africa. Lo ha dimostrato l’opera cinematografica della Marvel comics, diretto e co-scritto da Ryan Coogler, “Black Panther”, che ha letteralmente sbancato i botteghini in questi mesi.

Un messaggio di EbonyLife

Un messaggio di EbonyLife

EbonyLife è stata fondata nel 2013 e produce serie tv per un pubblico africano anglofono. Recentemente ha anche prodotto film come “The Wedding Party” e “Royal Hibiscus Hotel”, distribuito da Amazon.

L'annuncio dell'accordo

L’annuncio dell’accordo

Il nuovo partenariato USA-Nigeria potrà cambiare completamente i racconti sull’Africa. E Femi Odugbemi, un regista nigeriano, entusiasta del progetto, ha sottolineato: “E’ la prima volta che una compagnia di questa portata ha dimostrato interesse sedendosi al tavolo con noi per creare e sviluppare le storie dei popoli africani”.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes

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Eni in Congo-B accusata di corruzione: tre italiani controllano giacimento gas

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Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
Firenze, 10 aprile 2018

Questa volta lo scandalo Eni, dopo le accuse di corruzione in Algeria e Nigeria, arriva in Congo Brazzaville. Documenti di Paradise Papers hanno svelato che tre italiani e un loro socio britannico, tutti collegati all’azienda petrolifera di stato, controllano un enorme giacimento di gas dell’ex colonia francese.

Di questo nuovo caso che coinvolge il colosso italiano dell’energia, il numero de L’Espresso uscito l’8 aprile, ne parla in un’inchiesta che ricostruisce la vicenda della quale sta indagando la Procura di Milano.

Eni

Eni

L’accusa contro Eni è di corruzione internazionale e i magistrati vogliono indagare sull’importo delle presunte tangenti pagate a “pubblici ufficiali stranieri” per capire come hanno fatto tre italiani e il loro socio britannico a diventare proprietari del giacimento di gas del Paese africano.

L’Espresso ha realizzato il reportage sull’analisi di oltre 700 documenti estratti da Paradise Papers condivisi dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung con l’International Consortium of investigative journalists (Icij) del quale fa parte anche il settimanale italiano.

L’inchiesta giudiziaria coinvolge Roberto Casula, responsabile dello Sviluppo Eni e già consigliere di amministrazione di Eni Foundation; Andrea Pulcini, procuratore Eni ed ex alto dirigente Agip a Londra; Maria Paduano che ha forti legami d’affari con Roberto Casula e Alexander Haly, fornitore di Eni Congo, cittadino britannico residente a Montecarlo.

Il giacimento congolese off-shore si chiama Marine XI e vale due miliardi di dollari. Nel 2013 la WNR-World Natural Resources, con sede alle Mauritius – paradiso fiscale con tassazione massima al 3 per cento – ha acquisito il 23 per cento dell’immenso deposito di gas naturale. La quota gli è stata ceduta dal Groupe Africa Oil & Gas Corporation (Aogc), primo gruppo petrolifero privato congolese nato nel 2003.

Il giacimento off-shore della Repubblica del Congo, Marine XI

Il giacimento off-shore della Repubblica del Congo, Marine XI

Aogc, a livello internazionale, è però conosciuta anche come azienda accusata di essere la cassaforte del “cerchio magico” del presidente Denis Sassou-Nguesso. Viene utilizzata dai plutocrati congolesi per esportare valuta e acquistare ville e beni di lusso fuori dal Paese. Dai documenti risulta che il valore di mercato della fetta di Marine XI acquistata da WNR nel 2013 era di 430 milioni di dollari ma è stata pagata solo 15 milioni. Perché un prezzo stracciato davanti al suo reale valore?

Secondo la ricostruzione nell’inchiesta pubblicata da L’Espresso dopo un lungo lavoro di sfoltimento di carte sulle società anonime che nascondevano la proprietà, la WNR risulta appartenere a Pulcini e alla moglie Rita che controllano il 49,9 per cento, e a Paduano e Haly che hanno il rimanente 50,1 per cento diviso per due.

Eni sull’indagine 9della magistratura ha dichiarato che continuerà a fornire la propria collaborazione alla magistratura affinché possa essere fatta la massima chiarezza sulla vicenda e “la propria totale estraneità da presunte condotte illecite in relazione alle operazioni oggetto di indagine, operando nel pieno rispetto delle leggi stabilite da Stati sovrani”.

In un’intervista rilasciata a Repubblica poche settimane fa Jean Luc Malekat, ex ministro dell’Economia nel governo di transizione del premier André Milango, ha affermato che Eni ha fatto accordi con l’attuale amministrazione per il rinnovo illegale dei contratti di concessioni scadute. Conferma che c’è stato anche un accordo per l’installazione di centrali a gas in Congo “in modalità assolutamente non trasparente”.

Mappa del Congo-B e la sua posizione nel continente africano

Mappa del Congo-B e la sua posizione nel continente africano

Nella Repubblica del Congo c’è una brutta situazione sui diritti umani. Secondo il rapporto 2017-2018 di Amnesty International le autorità hanno vietato raduni e assembramenti pubblici limitando l’esercizio del diritto alla libertà di riunione e anche il diritto alla libertà d’espressione ha subìto limitazioni.

Di fatto il Congo-B è conosciuto come uno dei Paesi con il livello di corruzione più alto al mondo dove il presidente-dittatore Dennis Sassou-Nguesso (al potere da 34 anni, tranne per una breve parentesi quando fu eletto Pascal Lissouba che lui cacciò con l’aiuto dei francesi dopo aver scatenato una feroce guerra civile), e il suo entourage spendono a piene mani mentre la popolazione vive con un dollaro al giorno. Transparency International sulla corruzione piazza l’ex colonia francese al 161° posto su 180 e dà il punteggio di 21 su una scala di cento.

È bene infine ricordare che l’attuale amministratore delegato dell’ENI, Claudio Descalzi, è sposato con una donna congolese, Marie Madeleine Ingoba, che fa parte dell’intimo entourage di Sassou-Nguesso. Un piccolo insignificante tassello che può ed è in grado di aprire parecchie porte.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com
Twitter: @sand_pin

Crediti immagini:
– Mappa Congo-B
Di Directorate of Intelligence, CIA – https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/cf.html, Pubblico dominio, Collegamento
– Mappa Africa Congo-B
Di Alvaro1984 18Opera propria, Pubblico dominio, Collegamento

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Tedesco rapito a Kano in Nigeria: è il secondo in una settimana

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Loghino africa expressAfrica ExPress
Abuja, 17 aprile 2018

Ieri mattina, poco prima delle 08.00 ore locali, un cittadino tedesco è stato rapito a Kano, capoluogo dell’omonimo Stato federale nigeriano. Le generalità del tedesco non sono state rese note.

L’uomo, un ingegnere, impiegato di un’impresa di costruzioni, si stava recando al lavoro in macchina, scortato dalla polizia, quando un gruppo di cinque uomini armati hanno aperto il fuoco, uccidendo uno degli agente di sicurezza. Testimoni oculari hanno confermato che una banda criminale composta da quattro-cinque elementi, avrebbe ingaggiato una sparatoria prima di portare via il cittadino tedesco.

Map-of-Nigeria

Il barbaro rapimento, nonchè la morte dell’agente, è stato confermato da Magaji Musa Majia, portavoce della polizia di Kano, mentre finora nè l’ambasciata tedesca in Nigeria, nè il ministero degli Esteri di Bonn hanno rilasciato dichiarazioni in merito. Immediatamente dopo il sequestro è stata aperta una caccia all’uomo in tutto lo Stato per stanare i criminali con il loro ostaggio.

Solo pochi giorni fa in Niger è stato rapito un operatore umanitario tedesco.

In Nigeria i rapimenti di cittadini stranieri è frequente. Generalmente vengono rilasciati dopo breve tempo dietro il pagamento di un lauto riscatto. La ex colonia britannica è considerato un Paese ad alto rischio, dove i rapimenti si stanno moltiplicando in modo preoccupante. La mancanza di lavoro, la povertà, la galoppante corruzione, che impedisce una concreta pianificazione per sviluppo e la crescita economica delle comunità sono certamente alla base di questi atti criminali.

Lo scorso ottobre è stato rapito anche missionario italiano , mentre poco più di un anno fa è toccato a due archeologi tedeschi, rimessi in libertà dopo poco. A gennaio, invece, due cittadini statunitensi e due canadesi sono stati portati via da un gruppo di criminali).

Nel Delta State, nel sud del gigante dell’Africa, ad ottobre erano stati rapiti quattro missionari britannici, impegnati nel campo medico. Tre di loro sono stati rilasciati, mentre il quarto, un medico, è stato brutalmente ammazzato.

Africa ExPress

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Esercitazione nel Sahel sponsorizzata dagli USA ma anche con soldati italiani

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Cornelia I. Toelgyes Rov 100Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 21 aprile 2018

E’ terminata la maxi esercitazione millitare “Flintlock 2018”, un addestramento regionale tra Africa, alleati e  forze speciali del controterrorismo USA, che si svolge ogni anno dal 2005. Flintlock si svolge sotto la regia del Chairman of the Joint Chiefs of Staff (CJCS) (in italiano: capo degli Stati maggiori riuniti), che attualmente è Joseph Francis Dunford Jr. ed è sponsorizzata da The United States Africa Command (AFRICOM).

All’edizione di quest’anno hanno partecipato soldati delle forze armate di ben venti Nazioni. Oltre ai soldati africani dei cinque Paesi del Sahel (Burkina Faso, Ciad, Mauritania, Mali e Niger), vi hanno fatto parte anche quelli di Camerun, Nigeria e Senegal, insieme a militari di Paesi partner occidentali, tra loro ovviamente italiani e altri, provenienti da Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti.

I quasi millenovecento soldati che hanno partecipato all’esercitazione congiunta di questa edizione, hanno ricevuto un addestramento militare mirato per il respingimento dei gruppi terroristi jihadisti, particolarmente attivi in tutto il Sahel.

Flintlock 2018, soldati dei Paesi partecipanti

Flintlock 2018, soldati dei Paesi partecipanti

La cerimonia d’arpertura di quest’anno si è tenuta nella base militare di Tahoua, nel Niger, che nel luglio 2017 è stato teatro di un feroce attacco terrorista, rivendicato da “Gruppo di sostegno dell’islam e dei musulmani”, capeggiato da Iyad Ag Ghali. Ed è proprio in questa ex colonia francese che quattro soldati statunitensi sono stati barbaramente ammazzati in un’imboscata lo scorso anno.

Washington è presente da tempo in Niger con ben due basi, una nella capitale Niamey, e un’altra ad Agadez, nel nord. I tedeschi, invece, stanno costruendo una base aerea all’aeroporto di Niamey per facilitare l’intervento delle proprie truppe in Mali. Anche i francesi dispongono di due basi: la prima nella capitale Niamey, mentre la seconda, a Madama, che dovrebbe servire da appoggio anche ai nostri soldati.  Ancora non è arrivato il via libera da parte del governo nigerino per il dispiegamento delle nostre truppe in questa ex-colonia francese. Angelino Alfano ha fatto sapere che le trattative con Niamey sono tutt’ora in corso. Certamente sarà compito del nuovo governo – se lo riterrà opportuno – portare avanti il dialogo con le autorità nigerine. Dall’altro canto però, il nostro Consiglio dei ministri aveva approvato tale missione alla fine dello scorso anno, mentre il Parlamento ha dato la sua approvazione poco più di un mese fa, senza che sul tavolo del nostro governo ci fosse una lettera di richiesta in tal senso da Niamey. Eppure Alfano aveva annunciato durante la cerimonia di inaugurazione della nostra ambasciata in Niger, il 3 gennaio 2018 che l’invio delle nostre truppe sarebbe stato imminente.

Come base per Flintlock 2018 è stata scelta proprio Agadez, ma le esercitazioni si sono svolte anche in Senegal e a Bangré de Kamboinsé, poco distante da Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso e Gilbert Ouedraogo, capo di Stato maggiore aggiunto burkinabè ha presieduto la ceromonia conclusiva il 19 aprile insieme al chargé d’affaires dell’ambasciata USA nel Paese.

Durante quasi due settimane (dal 9 al 20 aprile) le truppe, suddivise in piccoli gruppi, si sono esercitate in più discipline, dal paracadutismo al combattimento in zone urbane, alle tecniche di liberazione di ostaggi e molto altro ancora.  Secondo Ouedraogo le manovre hanno rinforzato le capacità delle unità speciali delle forze armate impegnate nella lotta contro il terrorismo.

Il programma sicuramente non è stato scelto a caso,  visto che sarà sopratutto compito del nuovo contingente tutto africano “Forces G5 Sahel” a dover contrastare e combattere i terroristi attivi nell’area, in particolare nelle zone di frontiera in special modo il triangolo Mali, Niger, Burkina Faso.

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Per quanto concerne il nuovo contingente del Sahel, fortemente voluto dalla Francia e dall’UE, gli USA restano prudenti, come si evince dalle parole di Marcus Hicks, comandante di AFRICOM: “Il G5 Sahel ha recentemente effettuato le sue prime operazioni; dal punto di vista delle nostre forze armate avremo occasione di collaborare con ciascuno degli Stati che ne fanno parte, fornendo assistenza e formazione. Resteremo reattivi e flessibili mentre il G5 Sahel sarà in azione”. Flessibili, ma sopratutto prudenti, gli USA non vogliono impegnarsi in iniziative non loro. Malgrado ciò, il governo di Washington ha contribuito con un finanziamento di sessanta milioni per il nuovo corpo militare tutto africano.

Mentre le forze speciali erano intente ad esercitarsi, è stata attaccata la base della Missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite a Timbuctu, nel nord del Mali e un operatore umanitario è stato rapito vicino a Inatès nel Niger, a pochi chilometri dal confine con il Mali.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes

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Ciad: dopo 28 anni il presidente Idriss vuole restare al potere e il suo governo si dimette

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francoDal Nostro Corrispondente
Franco Nofori
Mombasa, 5 maggio 2018

Lo scorso giovedì, con una decisione peraltro attesa, il primo ministro del Ciad, Albert Pahimi Padacke, in un messaggio televisivo al Paese, ha annunciato le sue dimissioni e quelle del suo governo, per protestare contro la recente modifica costituzionale che assegna al presidente Idriss Deby altri sei anni di potere, rinnovabili per altri sei. La nuova norma, fortemente avversata dall’opposizione che ha presentato ricorso, è stata confermata dalla Corte Costituzionale ed è quindi operativa a partire da venerdì scorso.

Il presidente del Ciad Idriss Baya

Il presidente del Ciad Idriss Deby

Idriss Deby è salito al potere nel 1990 quando, con un colpo di stato, cacciò Hissène Habré, suo predecessore e anche suo mentore. Nel 2001 assicurò che avrebbe lasciato la presidenza allo scadere del secondo mandato che si sarebbe concluso nel 2006. Promise anche che mai avrebbe cambiato la Costituzione per estendere la propria carica oltre quel termine, ma a dispetto di tali promesse, si fece riconfermare alla presidenza nel 2006, nel 2011 e di nuovo nel 2016 giustificando il suo voltafaccia con l’asserzione che “la vita della Nazione era in grave pericolo” ed era quindi suo dovere farsi carico di proteggerla. Ora, quest’ultima modifica al disposto costituzionale varato venerdì, non si limita a estendere la sua carica per altri potenziali 12 anni, ma inserisce una clausola che gli fornisce in pratica il dominio assoluto sulla Nazione giacché elimina anche le figure del vice presidente e del primo ministro, consacrando cosi Idriss a un potere totalmente autocratico.

Il palazzo presidenziale di N'Djamena, la capitale de Ciad

Il palazzo presidenziale di N’Djamena, la capitale de Ciad

A capo di un paese corrotto e – nonostante le enormi riserve petrolifere – anche poverissimo, Idriss Deby, nel confronto con i suoi colleghi continentali, non teme certo di sfigurare, visto che il delirio di potere è largamente condiviso in tutta l’Africa, come dimostrano le posisioni di re Mswati III dello Swaziland, in carica da trentadue anni, periodo uguale a quello di\ Yoweri Museveni in Uganda; Paul Biya in Camerun per quasi trentasei anni; Denis Sassou Nguesso in Congo Brazzaville per trentaquattro anni. In Togo, Etienne Gnassingbé Eydéma, dopo essere stato al potere per trentacinque anni, fece ridurre il limite di età posto dalla Costituzione per accedere alla presidenza, da quarantacinque a trentacinque anni, in modo che il suo rampollo, il trentaseienne Faure Gnassingbé, potesse succedergli dando così luogo a una vera e propria dinastia monarchica; Robert Mugabe, deposto recentemente, impose il suo gerontocratico dominio sullo Zimbabwe per trentotto anni, prima come capo del governo e poi come presidente. L’elenco potrebbe proseguire e non basterebbe lo spazio di questo articolo per contenerlo tutto, soprattutto se si volessero aggiungere i capi di stato cui la morte ha impedito di mantenere il potere. Per tutti basterà ricordare Muammar Gadaffi che espresse la sua dittatura assoluta sulla Libia per ben quarantacinque anni.

mapchad

Ex colonia francese, indipendente dal 1960, il Ciad è un Paese senza accesso al mare. Stretto tra Libia, Niger, Camerun, Nigeria, Sudan e Repubblica Centrafricana. Conta dodici milioni di abitanti, in gran parte di religione islamica e di lingua araba. Il suo territorio prevalentemente arido, offre solo il quattro per cento di superficie coltivabile e i dati che lo riguardano esprimono un’oggettiva difficolta del vivere: ha un’alta crescita demografica del quarantadue per mille e un elevato tasso di mortalità infantile che si attesta al centodue per mille. Il sessantacinque per cento della popolazione è ancora analfabeta e la speranza media di vita alla nascita, non supera i cinquantatre anni.

Famiglia rurale ciadiana

Famiglia rurale ciadiana

Fino a qualche hanno fa, nonostante la ridotta disponibilità di terreni coltivabili, la voce prevalente nell’economia ciadiana era l’agricoltura, non certo sufficiente però a garantire accettabili condizioni di vita che erano quindi sostenute dagli aiuti internazionali, ma dal 2003 le esportazioni petrolifere hanno portato significativi introiti alle casse dello Stato e sono tuttora in rapido incremento. Questa crescita, potrebbe rappresentare, in divenire, un miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini, portando loro i più essenziali supporti in termini di occupazione, sanità, educazione scolare e infrastrutture.

Zona desertica del Ciad

Zona desertica del Ciad

Certo che gli esempi di Angola e Nigeria, in cui guerre e povertà permangano benché i due Paesi siano da tempo consacrati come grandi produttori di greggio, non incoraggiano troppe speranze in proposito. Né può incoraggiarle la tracotante decisone di Idriss Deby, mirata non al benessere del suo popolo ma a uccidere la democrazia e a protrarre la propria egemonia sul Paese riducendolo così a un possedimento feudale.

Franco Nofori
franco.kronos1@gmail.com
@Franco.Kronos1

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Amnesty accusa: “In Sudafrica gli immigrati vivono nella paura di attacchi xenofobi”

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sandro_pintus_francobolloSpeciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
Firenze, 16 maggio 2018

I richiedenti asilo e gli immigrati che vivono nel “Paese arcobaleno”, ormai da un decennio, “vivono in un costante stato di paura”. Nel Paese di Nelson Mandela la situazione verso i migranti è andata peggiorando con un pesante aumento della xenofobia.

Gli stranieri di origine africana – soprattutto immigrati da Malawi, Zimbabwe, Mozambico, Somalia e Nigeria – a causa del lassismo sulle politiche migratorie, vengono accusati di favorire il narcotraffico e la prostituzione.

Polizia sudafricana (Courtesy Amnesty International)

Polizia sudafricana (Courtesy Amnesty International)

E visti i tassi di disoccupazione a due cifre  – che ormai superano il 30 per cento – dalla gente, gli immigrati vengono percepiti come coloro che rubano il lavoro ai sudafricani.

Non sono rare le manifestazioni di piazza con bastoni contro gli stranieri di origine africana nonostante, secondo l’ultimo censimento, gli immigrati siano appena il 4 per cento degli abitanti del Paese.

Amnesty International, in una nota, evidenzia verso gli stranieri che vivono e lavorano in Sudafrica discriminazioni quotidiane che creano una condizione di costante paura di attacchi fisici.

Secondo l’ong per i diritti umani, sotto la presidenza di Jacob Zuma, la xenofobia nei confronti di migranti di altri Paesi dell’Africa australe non è stata mai seriamente contrastata.

Sono passati dieci anni dall’orribile violenza xenofoba che l’11 maggio 2008 ha causato la morte di 60 persone ma i rifugiati e gli immigrati non stanno meglio.

Il neo presidente sudafricano Cyril Ramaphosa (a sin.) e l'ex capo dello Stato Jacob Zuma

Il neo presidente sudafricano Cyril Ramaphosa (a sin.) e l’ex capo dello Stato Jacob Zuma

Non è tenera Shenilla Mohamed, direttore generale di Amnesty International Sudafrica: “La violenza che si è diffusa in tutto il Paese nel 2008 avrebbe dovuto essere un campanello d’allarme per il governo, sottolineando le conseguenze catastrofiche della sua incapacità di sradicare l’odio contro i rifugiati e i migranti. Ma a 10 anni di distanza, profughi e migranti sentono ancora gli echi di quel periodo terrificante”.

Ma cosa ha dato mano libera agli xenofobi in questo lungo periodo? Secondo Shenilla la mancata consegna alla giustizia dei responsabili degli attacchi del 2008 e il fallimento del sistema di giustizia penale con molti casi irrisolti. I migranti e i rifugiati vendono aggrediti e a volte ammazzati sapendo che gli assalitori resteranno impuniti.

Senza dubbio l’ex presidente Jacob Zuma, uscito indenne da un tentativo di impeachment ma poi costretto a dimettersi, ha lasciato al neo presidente, Cyril Ramaphosa, un’eredità ingombrante.

Amnesty aveva detto: “…chi succederà a Zuma dovrà assicurare che il rispetto dei diritti umani sarà una priorità e che le vittime delle violazioni dei diritti umani di questi ultimi anni ottengano piena giustizia e riparazione”. Vediamo come se la caverà il nuovo presidente sudafricano.

Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com
Twitter: @sand_pin

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Respinti dall’ Europa i migranti puntano a ovest: barcone con 25 africani arriva in Brasile

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Loghino africa express 2

Africa ExPress
Brasilia, 21 maggio 2018

Venticinque migranti, provenienti dal Senegal, Nigeria, Guinea, Sierra Leone e Capo Verde, sono stati soccorsi insieme ai due scafisti brasiliani a largo delle acque di Maranhão, Stato situato nel nord del Brasile.

Secondo un comunicato della polizia federale brasiliana il viaggio via mare è durato trentacinque giorni e alcuni dei poveracci sono stati ricoverati in stato di grave disidratazione, mentre gli scafisti sono stati arrestati per traffico di esseri umani, . La marina militare del Paese ha fatto sapere che è stata aperta un’inchiesta per determinare le esatte dinamiche di questa traversata. Sembra che le vele del natante siano state distrutte durante una tempesta ed è stato riportato che gli ultimi cinque giorni sia venuto a mancare anche il carburante.

Migranti africani approdano in Brasile

Migranti africani approdano in Brasile

Non è la prima volta che disperati africani, che fuggono da oppressione, fame, cambiamenti climatici, guerre, cercano di raggiungere lidi non europei. D’altronde il Brasile è il Paese con il maggior numero di persone di origini africane, dunque culturalmente più vicino a chi proviene da aeree subsahariane.

E, secondo uno studio dell’università di Yale, molti rifiugiati cercano destinazioni alternative, vista la difficile situazione libica e gli accordi sottoscritti dall’Unione Europea e dall’Italia per arginare il flusso migratorio. (https://www.africa-express.info/2017/05/24/guardacoste-libico-spara-contro-migranti-il-risultato-degli-accordi-con-litalia/) e (https://www.africa-express.info/2017/03/28/pasticci-dellunione-europea-che-non-riesce-fermare-migranti-e-profughi/).

Africa ExPress

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Giochi del Commonwealth in Autralia: gli atleti africani in fuga dalla vittoria

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Costantino MuscauDal nostro Corrispondente sportivo
Costantino Muscau
Milano, 24 maggio 2018

Arcangeline Fouodji Sonkbou , 30 anni, pesista, Camerun: assente

Petit David Minkoumba,  28 anni, pesista, Camerun: assente

Olivier Heracles Matam Matam, 25 anni, pesista, Camerun: assente

Ricordate Manu Chao? “Mi chiamano lo scomparso /quando arriva già se n’è andato/ Arrivo volando, volando me ne vado/ Di fretta di fretta verso una rotta sconosciuta”.

Continuiamo con l’appello .

Simplice Fotsala, 28 anni, pugile: assente.

Arsene Fokou, 35 anni, pugile: assente:

Ulrich Rodrigue Yombo, 25 anni, pugile: assente;

Christelle Aurore Ndiang, 29 anni, pugile, assente;

Christian Ndzie Tsoye, 28 anni, pugile, assente.

Anch’essi tutti del Camerun. …

Ricordate Manu Chao: “Africano clandestino, fuorilegge, ..correre è il mio destino per fregare la legge”.

L’appello potrebbe proseguire: per due atleti ugandesi, per un coach paralimpico ruandese e per decine di altri dirigenti della Sierra Leone, della Nigeria, del Ghana….

Tutti scomparsi, introvabili, clandestini. O quasi. Perché più di uno di loro, ad esempio il pugile Simplice Fotsala, ha postato sorridente e irridente le sue foto sul ponte più famoso di Melbourne.

Una fuga di massa, anzi un rifiuto di massa. Mai visto nella pur lunga storia di defezioni avvenute in occasioni di grandi eventi sportivi mondiali.

Sono, infatti,  ben 255 gli atleti e i dirigenti, molti  di quali africani,  rimasti “clandestinamente” nella terra dei canguri dopo i XXI Giochi del Commonwealth , svoltisi nella Golden Coast, Stato del Queensland (Brisbane) dal 4 al 15 aprile. Tutte persone che in parte  hanno già chiesto asilo al governo degli aussies, oppure si sono volatilizzate nel Villaggio degli atleti.

Atleti del Camerun ai XXI Giochi del Commonwealth in Australia

Atleti del Camerun ai XXI Giochi del Commonwealth in Australia

Tutta gente che non ha nessuna intenzione di rientrare in…classe, di tornare – almeno per quanto riguarda atleti e dirigenti africani –  a Yaoundè, dal longevo, immarcescibile presidente Paul Byia, al potere  da 35 anni; o a Kampala, sotto quel Museveni che governa “solo” da 30 anni; o a Kigali, dove Paul Kagame, per non essere da meno degli altri due,  è stato designato quattro volte come presidente dal 2000 in poi (ovviamente rieletto).

“Disertori”, ha bollato i suoi introvabili pesisti e pugili il responsabile della comunicazione della nazionale del Camerun, Simon Molombe, che ha denunciato gli atleti alle autorità australiane.

“Ci costeranno milioni di dollari”, hanno urlato i simil-leghisti australiani di fronte alla prospettiva di concedere lo stato di rifugiato a centinaia di atleti e dirigenti, che, venuti in Australia per i Commonwelth Games alla scadenza (15 maggio scorso) del visto concesso per l’evento, sono diventati come i drammatici personaggi immortalati da Manu Chao: desaparecidos, clandestini.

In realtà 205 avrebbero ottenuto “visti ponte”, in attesa che il loro incartamento venga preso in esame. Altri 50, invece, hanno proprio fatto perdere le tracce, stando a quanto reso noto dal ministro dell’Interno , Peter Dutton, alla commissione Immigrazione del Senato. Il ministro ha minacciato di deportare chiunque non si presenti alle autorità e non abbia diritto all’ asilo.

“Si può dire che vi siano precedenti di lunga data, di atleti che chiedono asilo e ottengono protezione”, ha ricordato l’avvocato David Manne dell’organizzazione Refugee Legal. “Di fatto, alcuni degli atleti in giochi passati non solo hanno ottenuto protezione, ma hanno in seguito gareggiato per l’Australia”.

Simplice Ribouem, atleta ex camerunense., oggi australiano.

Simplice Ribouem, atleta ex camerunense., oggi australiano.

Uno di questi è Simplice Ribouem, 36 anni. Nel 2006, a Melbourne, ai XVIII Giochi del Commonwealth, dopo aver vinto la medaglia di bronzo per il suo Paese, il Camerun, “mi nascosi per tre giorni e tre notti, dormendo all’aperto e nutrendomi solo di acqua – ha raccontato ora commentando la ‘diserzione’  dei suoi connazionali -. Poi la mia vita cambiò. Divenni australiano e per il mio nuovo paese vinsi la medaglia d’oro ai XIX Giochi del Commonwealth del 2010 , a Nuova Delhi, e quella d’argento nel 2014, a Glasgow”.

Manu Chao

Manu Chao

Solo perché sono atleti, non vuol dire che non temano per la propria sicurezza”, ha commentato ancora l’avvocato David Manne. E non sempre per ragioni politiche. I camerunesi, ad esempio, fuggono da un Paese sull’orlo di una guerra civile e in preda a gravi tensioni da decenni.

Dopo la proclamazione di indipendenza, lo scorso ottobre, della Repubblica di Ambazonia (da Ambas Bay, la baia alla foce del fiume Mungo che in epoca coloniale segnava il confine naturale tra area inglese e francese), la repressione del governo centrale è stata durissima contro i separatisti anglofoni (circa 3 milioni contro gli altri 20). Un retaggio delle solite potenze coloniali. Tedesco fino alla fine della prima guerra mondiale, il Camerun fu diviso in due parti dalle potenze vincitrici: la zona sud-occidentale, più vicina alla Nigeria (il 20 per cento circa del territorio) fu affidata al Regno Unito, il restante 80 per cento, alla Francia. Tensioni mai sopite fra i due gruppi che spiegano come già alle Olimpiadi del 2012 di Londra sette atleti camerunesi scomparvero dal villaggio olimpico. (In occasione degli stessi giochi olimpici altri 21 atleti e allenatori dell’Africa svanirono nel nulla. E come non ricordare quello che successe nel 2011, quando da un hotel parigino si volatilizzò un’intera squadra calcistica senegalese?)

“Se poi si è omosessuali, questa è stata l’occasione per alcuni atleti di diventare liberi in una terra aperta”, ha chiosato un altro legale australiano, che si occupa di assistenza di clandestini o di chi chiede asilo. Il riferimento, neanche troppo velato, è sia all’Uganda sia al Camerun: nel primo per gli omosessuali recidivi è previsto l’ergastolo. Nel secondo , uno dei Paesi più omofobi del mondo – ha ricordato pochi giorni fa il sito gay.it – le persone associate alla omosessualità sono punibili sia con la reclusione sia con la pena di morte. Il mese scorso la polizia ha arrestato 5 uomini che lavorano per l’organizzazione per i diritti LGBT Avenir Jeune de L’Ouest e ad essi è stato ordinato di sottoporsi ad un esame anale, descritto come forma di tortura da parte delle Nazioni Unite”.

Costantino Muscau
muskost@gmail.com

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